Domatori

Imparare il reishiki 礼式, l’etichetta che regola le interazioni sul tatami, non è così complicato.

Chi osserva da fuori una classe di Aikido di solito rimane molto colpito: si respira impegno, si vede ordine. Esteriormente, il Dojo appare un mondo come vorremmo, anche fuori dal tatami.

Reishiki e rispetto sono due universi ben distinti. L’uno è la manifestazione dell’altro, tuttavia l’etichetta può essere osservata fin nel più minuscolo dettaglio, senza sia fondata su una briciola di rispetto.

Riguarda tutte le culture, a partire dal galateo nostrano, che è capace di annebbiare di forma rapporti vuoti dentro. Rimanendo in una dimensione giapponese, il reishiki è quell’elemento che ammiriamo nella compassata armonia di una società capace di grande pulizia, efficiente organizzazione, rigore estetico e che genera immense solitudini compresse nell’immutabile routine quotidiana.

La forma, che keiko dopo keiko riveste il praticante è un grande alleato della crescita personale. I ritmi e le dinamiche danno ordine, al corpo come alla mente. Fin da subito un praticante avverte un netto miglioramento: ci si sente più tranquilli, più focalizzati. Il corpo lentamente si sveglia, diventando più capace di movimenti via via più complessi e integrati.

Se non si fa attenzione, tuttavia, la pratica diventa, per la vita del praticante, la rappresentazione incarnata della società giapponese appena descritta: efficiente e chiusa in se stessa al contempo.

E’ ovvio che sarebbe già un grande risultato diventare persone capaci di puntualità, pulizia, impegno, silenziosa attenzione. E sarebbe il sogno proibito di ogni insegnante avere allievi che giungono, ognuno col suo tempo, all’esecuzione geometricamente ineccepibile delle tecniche.

Che cosa ce ne facciamo però di giungere esclusivamente a questo? A che serve diventare esperti piegatori di hakama, sapere quale fosse il piatto preferito di Yoroku Ueshiba al venerdì sera, citare l’Hagakure a memoria, accettare di mettere la nostra faccia là dove un secondo prima c’erano i piedi sudaticci di uno semisconosciuto…

…Se nel tempo non diventiamo capaci di quel minimo di empatia che ci rende capaci di aprire gli occhi di fronte a noi stessi e agli altri?

Nessun discorso moraleggiante. Nessun massimo sistema. Cose piccole, concrete: regalare un sorriso in più. Dedicare ben 20 secondi della nostra preziosa esistenza per chiedere a un compagno: “Come stai”?, magari anche con un messaggio. Riconoscere che il sensei ha il suo lato umano e che ha anch’egli le sue esigenze. E che magari non deve essere lui a rincorrere noi, perché magari i corsi sono iniziati da mesi e non ci siamo nemmeno curati di avvertire…

Un bravo domatore è chi riesce ad addestrare un animale senza ricorrere alla frusta.

La forma, il reishiki, il programma tecnico, il keiko… Sono tutti strumenti che utilizziamo per domarci. E tutti sappiamo quanto sia già difficile arrivare a domare il nostro corpo.

Ma c’è un animale selvatico, che si rintana nelle parti più in ombra di noi e che a volte diventa tanto più feroce quanto più la forma si consolida nelle sue espressioni tecniche.

L’ego è l’avversario per il quale le discipline marziali che compongono il Budo sono state create. Un avversario che pretende con forza il rispetto dagli altri, senza concederlo a sua volta.

Anche perché, per sua natura, il rispetto è la capacità di sapersi specchiare negli altri. Vedere che siamo capaci di declinare migliaia di tecniche ma che in fondo spesso siamo incapaci di riconoscere i nostri limiti e di vedere le esigenze altrui, fa male.

Fa talmente male che preferiamo spesso essere piccoli robot marziali, splendenti di fuori ma appassiti dentro.

La buona notizia è che si può scegliere di non finire così. E tu, chi vuoi diventare?

Disclaimer: Foto di Cemrecan Yurtman da Unsplash

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